AVVENIRE 26 giugno 2024

A conclusione della 73ª Settimana di aggiornamento del Centro di Orientamento Pastorale. L’urgenza di rinnovare profondamente il profilo delle comunità al cuore del dibattito

Nella grande città non si perde la fede, ma la parrocchia urbana va ripensata.

di LUCIANO MOIA

«Attenti, in città si perde la fede».

Era la battuta, in bilico tra minaccia e paura, con cui fino a pochi decenni fa i parroci di campagna accompagnavano il trasferimento dei loro fedeli verso la metropoli.

Le trasformazioni urbane e antropologiche della nostra epoca, con tutto il loro carico di complessità e di contraddittorietà, obbligano adesso la fede a fare seriamente i conti con quella battuta. 

Cosa rimane della civiltà cristiana nel contesto urbano?

Come dare concretezza all’obiettivo di rendere sempre più sinodali e missionarie le nostre parrocchie in quel contesto definito “post-urbano”, in cui nuove centralità si intersecano con nuove marginalità?

E, soprattutto, le parrocchie come noi le intendiamo, hanno ancora senso in un contesto urbano, sociale, culturale che cambia così rapidamente da rendere difficile anche cogliere il senso e la direzione di queste torsioni? 

 

Sono le domande al centro della 73ª Settimana di aggiornamento sociale del Cop (Centro di orientamento pastorale) che si conclude stamattina a Seveso, arcidiocesi di Milano. Tre giornate intense in cui teologi, pastoralisti, liturgisti, ma anche esperti di nuove tecnologie e rappresentati dell’associazionismo hanno tentato di declinare le prospettive di una trasfor-mazione magmatica e impetuosa che ci obbliga a rivedere certezze e abitudini rassicuranti.

Ma soprattutto, a fare i conti con una realtà in cui le persone che si dicono credenti – in una varietà di significati che induce a mettere da parte le semplificazioni – vivono secondo modalità scandite da tre frenesie, diverse ma strettamente collegate: l’assenza di tempo, l’esplosione della mobilità, l’enfasi della libertà.

Ne ha parlato Mattia Colombo, docente di teologia pastorale al Seminario di Milano, prendendo spunto da una serie di interviste a donne e uomini diversamente impegnati a livello parrocchiale e sociale, più o meno assidui nella frequentazione dei sacramenti.

Anche a proposito della vita di fede, l’aspetto più drammatico, perché più condizionante, rimane il tempo.

Quello che non c’è, quello che si consuma sempre troppo in fretta, quello che rimane oggetto dei nostri desideri.

« Non ho tempo», è la frase che si sente ripetere più spesso, con un atteggiamento che segnala un pesante ripiegamento sul presente.

Nello spazio urbano passato e futuro si appiattiscono fino a scomparire e tutto sembra dominato dall’orario e dall’agenda.

Troppo spesso, anche la scelta della Messa a cui partecipare non avviene più in base né a un criterio di appartenenza, né alla residenza, ma si sceglie quella con l’orario più comodo.

Senza considerare che, con queste premesse, anche il precetto festivo viene interpretato come una possibilità.

Uno sradicamento che rende problematica l’ordinaria vita parrocchiale e pone tante domande in relazione a una vita di fede sempre più personalizzata e un desiderio di preghiera che, anche tra le persone praticanti, nasce da impulsi emotivi, legati a situazioni contingenti: «Se mi succede qualcosa sento il bisogno di chiedere aiuto».

Il teologo ha parlato di epoca postcanonica e post-eretica, perché in fondo la post-modernità ha svuotato dall’interno questi due termini.

«Si entra e si esce liberamente dalla vita di vita, in modo spontaneo – ha spiegato Colombo – senza avere particolari conseguenze nella vita sociale».

È appunto l’enfasi della libertà di cui la postmodernità urbana ha fatto il suo segno distintivo, che diventa però facilmente anche solitudine, senso di sradicamento, talvolta alienazione e marginalità.

Condizioni che, per la parrocchia urbana, rappresentano una sfida da raccogliere ma anche una straordinaria possibilità di trasformazione e obbligano a considerare prospettive in cui la vita di fede non sia ridotta solo alla pratica sacramentale secondo percorsi che, se non possono essere considerati alternativi, vanno comunque esaminati con serietà.

Gianni Borsa, giornalista, presidente dell’Azione cattolica ambrosiana, ha invitato a considerare la città come realtà attraversata da flussi di persone ma anche luogo dove è possibile fare esperienza di prossimità.

Obiettivo non sempre facile in contesti dove spesso non si conoscono le persone che abitano sul nostro pianerottolo e dove, sui mezzi pubblici, nessuno scambia più una parola, immersi come siamo nel nostro guscio digitale.

Eppure, la città non è solo questo. È anche storie, volti, ricchezza umana.

E, allo stesso tempo paure e solitudini.

Situazioni che obbligano a verificare nuove ipotesi per riqualificare spazi che stanno perdendo le loro valenze simboliche, ricucire le relazioni e, soprattutto, ricostruire il senso della comunità, integrando soggetti, tradizioni, lingue diverse.

Perché, ha sottolineato, «l’evangelico farsi prossimo può davvero cambiare il volto delle nostre città, in quanto la Chiesa nello spazio pubblico ha ancora molto da dire».

A patto che, come ha fatto notare Ezio Falavegna, docente di teologia pastorale, lo stile sia quello dell’accoglienza come «apprendimento, come nuovo compito per la comunità cristiana » e come scelta generativa attraverso la qualità della relazione che, secondo l’esperto, riguarda, tra l’altro, «lo stile di vita, la capacità di ascoltare, lo sguardo amoroso ed elettivo, la misericordia e il rispetto per gli altri».

Insomma, un nuovo assetto di parrocchia che Luigi Girardi, docente di liturgia all’Istituto Santa Giustina di Padova, ha tentato di immaginare anche dal punto di vista “funzionale”.

Potremmo guardarlo con una prospettiva “miope” cercando semplicemente di conservare il passato.

Oppure accogliendo una prospettiva “profonda”, cioè un diverso modo di sentire la fede, abitare il territorio, immaginare le nuove comunità.

Quale allora il futuro della parrocchia?

Il liturgista ha parlato di «senso di comunità più leggero, non rigido, ma ospitale e permeabile».

Di una liturgia «capace di far sentire tutti a casa, compresi gli occasionali, superando mentalità campanilistiche ».

Di celebrazioni diversificate, non solo Messa, «per allargare l’esperienza della Grazia in condizioni diverse».